Contro De André. Borghese populista ante litteram o vero sovversivo?

Contro De André. Borghese populista ante litteram o vero sovversivo?

13 Febbraio 2018 0 Di Guest Post
di Pee Gee Daniel.

In occasione dell’imminente uscita del celebrativo biopic Il principe libero, incentrato sulla vita e sulle opere di Fabrizio De André, col presente articolo, vogliamo per una volta dissentire dalla moltitudine.

Vogliamo prenderci la briga di stonare di fronte alla messa cantata officiata dalla miriade di seguaci che costantemente e ovunque inneggiano tutti in coro al defunto cantautore genovese, per iscriverci invece tra le magre fila dei pubblici detrattori. Sempre ammesso che ve ne siano mai degli altri, oltre a chi qui scrive, che si chiamino fuori dal gradimento pressoché unanime di cui gode l’opera del Faber (specie dalla sua scomparsa in poi).

Sì, perché si può ben dire che De André sia ormai diventato una sorta di Mickey Mouse della musica impegnata: lo si sente dappertutto, anche nella sala d’attesa del dentista come tappetino musicale, piace a tutti, pure a Salvini. Si è trasformato in un santino: buono come Giovanni XXIII, indiscutibile come Garibaldi.

Una delle ragioni di questa presenza capillare è dovuta al fatto che gli eredi ci marciano da anni, questo è certo: la vedova sopra la sua tomba ha costruito una redditizia cattedrale in stile “Opere di Padre Pio”. Tra raccolte e riedizioni si può dire che De André pubblichi più ora che in vita. Senza contare il figlio, che sulla salma del padre lucra da decenni (in maniera del tutto simile a quei casi di cronaca nera in cui l’erede mantiene il corpo della madre deceduta dentro la ghiacciaia per poter continuare a riscuoterne la pensione): dopo qualche anno da cantautore in proprio, a babbo morto, quando la carriera cominciava prematuramente a languire, pensò bene di rimpiazzarla coverizzando ad oltranza la discografia paterna. A congiunti e affini si aggiungono poi le migliaia di tribute band che riempiono le sagre estive, i circoli culturali, le piazze di paese delle strofe immortali di Bocca di rosa o Crêuza de mä.

Un consenso di tale diffusione appare quanto meno paradossale per uno che si prefiggeva di andare sempre “in direzione ostinata e contraria”, un bastian contrario inveterato, anarcoide, contro ogni maggioranza per partito preso. Com’è potuto accadere un travisamento tale da far sì che chi si era votato allo scontro irriducibile con l’apparato borghese ne sia stato talmente inglobato e imborghesito da risultare beneamato, citato, adottato un po’ da tutti?

Forse perché, innanzitutto, borghese era lui?

Figlio di papà, più specificamente del più grande civilista genovese del tempo, tentò inizialmente di ripercorrerne le orme, con scarse fortune. Coltivava però una dote extra-avvocatizia: sulla scorta di Brassens, aveva imparato a comporre canzoni controcorrente che, nell’Italia perbenista del tempo, vedevano come protagonista la teppa suburbana: puttane, papponi, malviventi, vecchi ubriaconi. Questa sua difesa degli umili a tutti i costi, a conti fatti, può sembrare il tentativo edipico di sopprimere la figura del padre e quel mileu benestante che lo rappresentava. Derise, allontanò e stigmatizzò quel mondo e i suoi stilemi a parole, giammai nei fatti, visto che non rinunciò a nessuno dei comfort offerti dall’agiatezza (tenuta in Sardegna compresa), tanto meno alle piccole sicurezze costitutive del ceto medio, come la foto col figlio appena cresimato fuori dalla chiesa o la figura di Gesù, liberata dall’ortodossia cattolica per poi rivestirla di una devozione laica confusa e compromissoria (per non dire “paracula”): «Il pensiero di Gesù Cristo rimane il più rivoluzionario di tutta la storia» ebbe modo di affermare una volta, commentando il concept album La buona novella, non distinguendosi poi di molto dalla infondatezza di certi blandi proclami politici proto-novecenteschi che volevano Cristo come “il primo socialista”.

Ma che cosa si annidava realmente nell’animo di De André?

Paolo Villaggio raccontò di quando il giovane Faber andava a tirare i sassi ai bulicci, ossia ai gay, forse dalle parti del centro storico (la tanto decantata – oltreché cantata – Via del Campo), così, come infame passatempo. Com’è dunque possibile pensare a quel rampollo della “Genova bene” intento a “lapidare” quegli stessi soggetti che avrebbe molti anni dopo difeso strenuamente e in maniera quasi esibizionistica (proprio come fece con tutte le altre minoranze rintracciabili)?

Era, come si direbbe oggi, un poser?

Non ci spingiamo a tanto. I bei testi delle sue canzoni (che difficilmente scriveva da solo, ma spesso supportato da altri autori – accreditati o meno – quali Bubbola, lo stesso Villaggio e, non ultimo, Francesco Baccini!) appaiono sinceri. Eppure, alla fin fine, De André restò sempre un turista del sottoproletariato dolente. Lo descrive, empatizza con esso, ce ne dà quadri vividi e commoventi, sempre mantenendo però l’occhio lucido dell’osservatore esterno, che preferisce non immischiarcisi mai fino in fondo.

Alla base di tutto si rintraccia un manicheismo buonista e un po’ miserello, che si basa su questo unico assunto: i poveracci son sempre buoni. Con questo ulteriore corollario: qualsiasi cosa facciano di male è perché sono vittime di questo mondaccio ingiusto e schifo e di chi lo governa, fetente che è!

Ma non si spinge mai oltre questo. La sua difesa dell’umiliato e la sua denuncia del sistema di potere non superano mai, dal punto di vista metodologico, invettive da bar del genere «Piove, governo ladro!». Sotto questo aspetto, il buon Faber non sembra perciò troppo diverso da certi politici populisti, che amano segnalare le gravi difficoltà in cui versa il popolino senza però mai adoperarsi fattivamente per risanarle, forse per non rischiare di perdere quel loro elettorato di morti di fame che, qualora vivesse migliori condizioni, potrebbe anche essere tentato di votare altrove.

O, ancor meglio, ricorda un po’ il pauperismo pasoliniano: i poveri sono rimasti gli unici buoni e innocenti, non faceva che ripetere il grande scrittore. Anche lui ci teneva così tanto a loro e a quella preservazione dell’innocenza da loro impersonata che mai fece alcunché di veramente utile, dalla sua posizione borghese, per rendere le loro miserevoli vite un tantino più dignitose.