Ma quale sovranismo: cominciamo a chiamarlo nazismo

Ma quale sovranismo: cominciamo a chiamarlo nazismo

6 Giugno 2020 0 Di Redazione

Da Breivik a Tarrant, lo stragista di Christchurch: i killer fanatici della supremazia bianca hanno alle spalle lo stesso brodo di coltura

DI GIUSEPPE GENNA

27 marzo 2019

Quest’anno un uomo voleva uccidere la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez, stella del firmamento di sinistra negli States. Poi voleva uccidere Nancy Pelosi, speaker democratica alla Camera. L’uomo non intendeva fermarsi a questi due nomi, progettava di assassinare altre ventuno persone, tra politici, giornalisti e attivisti storici, come Angela Davis. Le ripugnanti speranze e la credibile cospirazione di questo signore sono state stroncate, sebbene non sul nascere.

Il 15 febbraio, a Silver Spring nel Maryland, le autorità hanno arrestato Christopher Paul Hasson. È un nome quasi ignoto ai lettori italiani. Ed è nodale, perché incarna al contempo una mitografia personale e un abisso collettivo, ciò che poteva essere e molte volte è stato. Un uomo che indossava una divisa delle forze dell’ordine, in particolare quella della guardia costiera, e ovviamente è un sovranista bianco. Nell’abitazione di Hasson è stato rinvenuto un arsenale: armi da fuoco e migliaia di munizioni, tutte acquisibili per legge. Non basta. L’uomo disponeva di abnormi quantità di ormoni e steroidi, un delirio molecolare maschile per «incrementare la capacità di condurre attacchi», secondo l’istruzione di un prestigioso predecessore, il terrorista norvegese Anders Behring Breivik, autore degli attentati di Oslo e Utøya nel 2011.

L’ispirazione fornita da Breivik è e sarà cruciale, non solo per Hasson. Lo è stata anche per Brenton Tarrant, l’assaltatore delle moschee a Christchurch. «Una vendetta contro gli invasori»: ha definito così il massacro questo che sarebbe un ragazzo e invece è già un uomo di mezza età, con la stempiatura e il mito steroideo della palestra, esattamente come Breivik. In un documento di 74 pagine, intitolato “La Grande Sostituzione”, postato in Rete poco prima di intraprendere l’orrore, Tarrant cita più volte proprio Breivik, che da par suo pubblicò sul Web, prima di compiere le stragi, un manifesto più corposo (1.800 pagine dal titolo “Una dichiarazione europea di indipendenza”) e che si direbbe altrettanto farneticante, se non fosse che quella farneticazione costituisce una visione del mondo e corrobora l’identità, anche psichica, di soggetti che realizzano il massacro come esito di un processo ideologico, di una cortocircuitazione che non è più soltanto individuale.

In un importante intervento Donatella Di Cesare profilava alla perfezione il brodo di coltura in cui germinano queste spore: ed è di fatto un brodo di cultura. L’ambizione primaria di questi killer suprematisti, bianchi e più o meno benestanti, si esprime anzitutto con un’analisi culturale, con una suppurazione in cui storia sociologia e filosofia collaborano a definire una teoria del mondo. Se i sovranismi estremi, come si nota assai bene nel contesto italiano, parlano ai visceri delle masse, e quindi abbattono la capacità di giudizio e l’opzione culturale, è pure vero che derivano da un pantheon di teorici e analisti miscelati furibondamente, Gramsci insieme a Spengler, Marcuse con Heidegger, Mao Tse Tung fuso con Evola.

È anzitutto in Italia che questo processo di appropriazione del nemico teorico è stato ferocemente realizzato. Bisogna tornare alla premessa storica degli Anni di Piombo nazionali – valga per tutti i possibili esempi il nazimaoismo con cui Franco Freda intendeva muovere l’assalto allo Stato. È questo il parnaso del rossobrunismo, ovvero l’ideologia sempre identica a se stessa e sempre rinnovata nella sua rapacità strabica, che oggi si propone come dottrina di quello stesso Stato che era da abbattere e ora è trasmutato, conquistato o condizionato a partire dall’élite. Questi partigiani avversi alle élite si muovono da élite: sono élite. Per cogliere l’enormità dei cattivi maestri ora al potere è sufficiente osservare i due principali esponenti di questo cialtronismo intellettuale, dipinti come maître à penser, cioè Steve Bannon e Alexandr Dugin, l’ex stratega di Trump e l’attuale filosofo di Putin – esprimono una povertà teorica che sarebbe grottesca, se non fosse tragica, e che persiste nel presentarsi come contraddittoria, confusiva e appunto rapace.

In quel bugliolo c’è di tutto, o meglio, c’è il peggio di tutto: la sottomissione della femmina al maschio, la messa al bando degli omosessuali e delle altre soggettualità di genere come stravaganti criminali genitali, un’idea di famiglia quale Ken e Barbie in costume Gestapo, la finzione della democrazia diretta come scardinamento della democrazia tout court, la superiorità del maschio bianco occidentale che va in giro vestito con pantaloncini e gambe prive di peli e calzini corti e sandali, il fascino dell’uomo solo al comando pur con la pancetta, un ibrido tra Longobardia e Texas profondo che disgusta non dico gli illuministi, ma qualunque persona di buon senso.

È proprio il buon senso a venire capovolto in rabbioso sentiment collettivo, in Rete e fuori, perché l’autentica Grande Sostituzione è quella a cui viene sottoposta la compassione, rimpiazzata con il terrore che genera aggressività preventiva. È una mutazione dell’umano, che ha le sue batterie ideologiche e viene perseguita implacabilmente dai Richelieu moscoviti e della Virginia.

Questo assalto estremo all’umano è una vittoria postuma di un male che, pur conosciuto nella sua irripetibilità, tenta di ripetersi. Un male assoluto, che si autorappresenta come assolutorio. Questo male ribadisce che ci sono sempre ottime ragioni per essere perpetrato, in vista di scopi superiori, di un bene supremo. Di fronte alla forma angosciante che nel nostro presente assume quel preciso tipo di male, per esempio disegnando il ghigno parallelo degli stragisti Breivik e Tarrant nelle aule di tribunale che sembrano la medesima corte, è necessario capire che ci troviamo sempre di fronte allo stesso male storico e assoluto.

Lo svuotamento della mimica facciale è il segno distintivo di tutti i figli putativi di un ben noto orrore. Nelle foto segnaletiche irradiava un immane sguardo assente il capostipite degli stragisti contemporanei, Timothy McVeigh, autore nel 1995 dell’attentato a Oklahoma City, 168 morti e più di 680 feriti. Lo stesso sguardo defunto in vita emana Breivik al momento dell’arresto: catturato, viene tenuto in una stanza di un cottage, dove lo fotografano: appare eviscerato, tradotto in un’astrazione, privo di connessione con chiunque, con sé, con il mondo – e non per via dell’adrenalina. Scrutiamo lo sguardo di Tarrant nell’abitacolo della sua auto: un prognatismo stolido, gli occhi come buchi neri, la luce umana spenta.

Di stragismo in stragismo si ripete, come una litania della realtà, questa cerimonia con cui facciamo la conoscenza dello stesso sguardo, una sorta di entità ultracorporea con cui i massacratori suprematisti bucano la coscienza e l’immaginario collettivi. Donatella Di Cesare proponeva nel suo intervento una contronarrazione che spazzi via quella sovranista. Ma è davvero una narrazione, il sovranismo? Proprio quello sguardo, patologicamente privo di presenza ed empatia, che insiste nella storia dell’Occidente contemporaneo, sembra sottrarsi a qualunque racconto, a qualunque romanzo. E a ogni interpretazione che rischi di produrre una giustificazione.

Per esempio, l’analisi psicologica: i genitori di Timothy McVeigh separati, divorziati quelli di Breivik, confessori morbosi quelli di Tarrant – l’idea che un trauma infantile spieghi quella precisa forma di male. Così pure non ha senso evocare la sociopatia o le conseguenze di un capitalismo marcescente. Pullulano definizioni e viene espunto l’elemento che è tanto difficile da dirsi. A una contronarrazione che si opponga a questo orrore, si può forse affiancare una proposta: smettere di parlare di suprematismo o di rossobrunismo. Sono tutti sinonimi digeribili di qualcosa di più radicale e pronunciabile. Poiché una delle strategie di queste élite dell’infestazione è mutare senso alle parole, sarebbe forse il momento di dare alla cosa il proprio nome. Quel nome è Hitler.


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