
Ripartire con uno sguardo al Codice Sociale di Camaldoli.
7 Dicembre 2016Dal 18 al 24 luglio 1943 un gruppo di intellettuali – laici e religiosi – cattolici si riunì, presso il monastero benedettino di Camaldoli, nella speranza di confrontarsi e riflettere sul magistero sociale della Chiesa, sui problemi della società, sui rapporti tra individuo e Stato, tra bene comune e libertà individuale.
L’intento era quello di elaborare un testo di cultura sociale che potesse aggiornare il Codice di Malines, primo tentativo di dottrina sociale cattolica fatto dall’Unione internazionale di studi sociali di Malines, in Belgio, a partire appunto dai contributi emersi nella settimana del seminario, al quale partecipò in modo attivo anche Giorgio La Pira.
Oltre al democristiano, presente e guida era il mons. Adriano Bernareggi, assistente ecclesiastico dei laureati dell’Azione Cattolica,
Il Codice di Camaldoli costituì una vera e propria svolta — sul piano degli indirizzi economici — del movimento politico dei cattolici italiani di quel periodo. Esso sentenzia il momento del definitivo passaggio dalle concezioni e dalle impostazioni della scuola della fine Ottocento e dei primi del Novecento a quelle ben più realistiche, che tengono conto del mutamento e delle variazioni verificatesi con la rivoluzione industriale nell’economia in particolare e, in genere, in ogni aspetto della vita pubblica e privata di quel periodo.
La preistoria di questa scuola risale agli articoli di Lamenais su L’Avenir (1830) e di Ozanam su L’Ere nouvelle (1848). Ma soltanto sul finire del secolo scorso si ebbe un vivace sviluppo di studi, di proposte, d’iniziative sociali ed economiche da parte di cattolici impegnati attivamente nella vita politica o anche soltanto culturale, in Belgio, Francia, Italia, Germania, Spagna. Tale sviluppo fu prima una delle cause e poi effetto della Rerum Novarum. (Enciclica Papa Leone XIII ).
Purtroppo, caratteristica costante degli indirizzi e della prassi di questo movimento fu il richiamo a concezioni adeguate all’economia rurale o artigianale, se non proprio medievale, comunque preindustriale. La grave problematica perdurò parecchi decenni.
Quando un economista cattolico di grande spicco, come Toniolo o Périn, prendeva coscienza dei presupposti e delle condizioni dell’economia industriale, finiva inevitabilmente per coordinare in qualche modo le formule dell’economia liberale con i princìpi della sociologia cristiana. Con approfonditi argomenti ancor oggi vivi e attuali si criticava e si ripudiava da un lato il collettivismo marxista e dall’altro il capitalismo individualista.
Ma quando dalla demolizione si passava alla costruzione, il tentativo di una terza via si riduceva nel ricorso a istituti — come la cooperativa e la partecipazione al profitto — che non sono certo condannevoli, anzi sono — là dove possibili — altamente auspicabili, ma non possono in alcun modo assumersi a chiavi di volta valide per la soluzione della ‘questione sociale’. Un altro tentativo consisteva nello sforzo di adeguarsi — non per piaggeria ma per ancestrale convinzione radicata nella memoria storica dei comuni del Trecento d’Italia e di Fiandra — al corporativismo degli anni Trenta dell’Italia, del Portogallo e dell’Austria.
Da qui la speranza non solo di padre Brucculeri, ma anche della seconda edizione del Codice di Malines, di poter distinguere, anzi separare il sistema economico corporativo dal regime politico della dittatura e del partito unico, accettando il primo e non il secondo.
Sarebbe dovuto invece risultare chiaro — come risultò agli autori del Codice — specie a Paronetto e Saraceno e a chi proveniva dalla Normale di Pisa che, nell’età industriale, un sistema corporativo non è conciliabile con la democrazia, anzi esige non solo la dittatura, ma ancor più il partito unico.
Ecco perché il Codice costituì una svolta. A Camaldoli gli indirizzi e le impostazioni dei vetero cattolici furono abbandonati. Si ripudiò l’illusione di risolvere la ‘questione sociale’ con il corporativismo o con gli istituti – pure validi, ma solamente là dove possibili – della cooperativa e della partecipazione al profitto.
Tenendo anche conto dell’esperienza dell’Iri, il Codice segnò l’adesione dei cattolici a una terza via, che può chiamarsi di «economia mista», adeguata alle insopprimibili esigenze dell’età industriale. Grandi gruppi industriali già sussistevano in Italia sia pure con un numero di occupati di gran lunga inferiore a quello degli occupati in agricoltura. Ma in poco più di un decennio la situazione si sarebbe mutata e l’industria avrebbe sovrastato nettamente l’agricoltura.
Il processo si sarebbe poi ulteriormente sviluppato, inserendo l’Italia nei primi posti della graduatoria mondiale dei Paesi industrializzati. È stata in venticinque anni, una vera e propria rivoluzione: gli addetti all’agricoltura sono passati dal 42% (nel 1951) al 15% (nel 1975); quelli addetti all’industria dal 32% al 44%. Nessuno degli autori del «Camaldoli» poteva prevedere un fenomeno tale, che sarà citato negli annali di storia economica come un caso unico.
Nonostanete ciò, con grande realismo, gli estensori del Camaldoli vollero e seppero guardare all’avvenire anziché al passato, e con spirito di preveggenza fissarono princìpi che risultassero base e di sicuro riferimento ai politici d’ispirazione cristiana impegnati nella Costituente, nella ricostruzione dello Stato, e nelle grandi riforme degli anni Cinquanta e Sessanta: il rifiuto dell’autarchia e del protezionismo; la liberalizzazione degli scambi con l’estero; il piano Fanfani-casa; la Cassa per il Mezzogiorno; le opere per le aree depresse del Centro-Nord; la riforma agraria; la costituzione dell’Eni e dell’Efim e il riassetto dell’Iri; le ampie riforme previdenziali; il piano autostradale; la nazionalizzazione delle fonti d’energia.