27 Gennaio 1945. Sventurata è la Memoria quando canonizzata.
31 Gennaio 2018Nel giorno in cui si ricorda l’apertura dei cancelli di Auschwitz ho intervistato due attori, Matteo Curatella e Valerio Bongiorno, che da anni si prodigano per far conoscere il valore del ricordo ai giovani.
In teatro, nelle piazze, nelle televisioni, ovunque non si può dimenticare. Questo è il primo messaggio che deve trapelare – dice Curatella. Ma, al di là, perché questa data non si vada disperdendo con altre, che possono essere pure loro simboliche nella cultura italiana ma che, comunque, non hanno lo stesso peso sul vivere collettivo, sulla coscienza collettiva, dobbiamo far sì che non sia vista come qualcosa di canonizzato o canonizzabile.
Così continua l’attore Milanese che, anche in RAI, ha portato in scena la deportazione dei Rom e dei Sinti durante il periodo nazifascista. In questi giorni in cui è sul palco a raccontare le storie del Porrajmos, come ogni anno di questo periodo, vede ragazzi ridere – perché lo spettacolo deve far ridere – e poi commuoversi – perché lo spettacolo deve “lasciare un segno”.
Allo stesso tempo, dice, gli adulti non provano le stesse emozioni degli adolescenti durante la sua esibizione, e questo è un male perché par quasi ch’essi partecipino ad un rammemorare collettivo sì, ma imposto… come un Padre Nostro che in chiesa sai quando è il momento di recitare e lo lasci scivolare monotono dalle labbra. Non si può certo generalizzare – continua – ma, purtroppo, non si può nemmeno non tener conto che spesso ciò accade.
Purtroppo Matteo, come Valerio Bongiorno, in questi giorni è molto occupato per via dei suoi spettacoli e poco altro ha potuto dirci (tempo tiranno!). Ho però registrato un altrettanto interessante conversazione con l’attore Bongiorno, e sentite cosa dice:
Risento le parole di Liliana Segre – ndr: nominata Senatrice a vita il 19 gennaio 2018 – che racconta di quando gli ebrei, lei e la sua famiglia compresa, furono portati via dal Carcere di San Vittore. L’unico gesto di umanità l’hanno avuto dai detenuti comuni, in una Milano non deserta ma zitta davanti alla tragedia.