La sacralità e i suoi abusi nel dopo Charlie Hebdo
13 Dicembre 2015In pochi anni, neanche duecento, millenarie convinzioni si son sfracellate al suolo della modernità e ora non fanno che rincorrere, a fatica, l’evolversi dei tempi con arcaiche metodologie.
Gli ultimi attacchi terroristici in ordine cronologico nel cuore della Francia, avvenuti nella metà di novembre 2015, hanno indiscutibilmente rivelato una notevole inadeguatezza del mondo post moderno: questo è il tempo in cui le religioni comincino a parlarsi, confrontarsi, avvicinarsi; non tanto per cercare “la pace fra di loro”, quanto perché rivendichino il messaggio di “pace” che ogni, badate bene, ogni religione porta con sé.
Premetto, data la fatica immane ad esser già me e me soltanto, io non sono Charlie Hebdo né tanto meno Parigi. Che non rappresento e non intendo rappresentare.
«Eppure sei un cristiano -direbbe qualcuno-, sei stato battezzato, hai ricevuto la comunione e quant’altro, sei cittadino italiano, voti in Italia, sei europeo, voti addirittura per le elezioni europee: non ti senti rappresentante almeno di questo?». Al diavolo le banalità!
So benissimo questo. E allora? Sono anche di razza umana e di sesso maschile. Cosa vuol dire? Forse che rappresento la razza umana di sesso maschile? «Vedo il cavallo ma non la cavallinità[1]».
A dire il vero, a me pare che questo senso di appartenenza è sì qualcosa di cui tener conto, ma che non rivela il nostro essere per ciò che è oltre a ciò che è, che rappresenta quel “dato” che partecipa nell’identificarci, storicamente parlando. Come affrontare, dunque, un tema così apparentemente legato al credo religioso, qualunque esso sia, restandone al di fuori di tutto ciò, dati i presupposti?
E, soprattutto, mentre l’Occidente vede venir meno i valori -anche cristiani- su cui sono state fondate le sue stesse basi, non è sotto la stessa vestigia, le stesse metodologie di dominio, di attacco ed incursione che altri popoli rivendicano uno “spazio vitale”? “Popoli”, o religioni?
Già, perché è facile confondersi su tal punto almeno quanto è facile confondere; confondere le menti, sparigliar le carte, introdurre fondamentalismi che altrimenti non avrebbero senso alcuno se non quello, appunto, di confondere.
Noi sappiamo benissimo che l’autoproclamato Stato Islamico ha tratto la sua forza dall’invasione dell’Iraq, da parte delle forze militari americane, nonché dei suoi gregari, Italia inclusa. Ciò è suffragato oltremodo dai resoconti storici e di cronaca, da una guerra fondata sulla falsa credenza del possesso di armi di distruzione di massa, da parte del deposto Saddam Hussein, che ricorda da vicino quel massacro trentennale chiamato Vietnam.
Ora, se abbiamo assistito a stragi in nome della religione, della patria, dell’orientamento politico, sessuale, per il solo fatto di essere uomini o donne, neri o bianchi e quant’altre vigliaccherie celate sotto falsi nomi e falsi idoli, cos’altro ci manca per esser sicuri di fare – citando il cantautore milanese Giorgio Gaber – «più schifo che spavento»?
Non potendo affermare con forza la propria identità, si cerca di prevalere sull’altro con ogni espediente, dapprima col linguaggio.
Heidegger ci ricorderebbe a tal proposito, in “Essere e Tempo”, che l’essere in comunità è regolato dalla chiacchiera e insinua «un brulicante ed equivoco starsi a sorvegliare reciproco, uno starsi a sentire vicendevole. Sotto la maschera dell’esser-l’un-per-l’altro [Füreinander] domina l’esser-l’un-contro-l’altro [Gegeneinander][2]».
Come sappiamo, egli si pone il problema della verità; un problema che ha da fare con l’esserci e il con-essere, cioè l’essere in comunità come abbiam detto e, l’aver-cura “di” è una modalità di mettersi in comunicazione che ha da fare, a sua volta, con la possibilità di dominio sugli altri. Perché questo? E qui chiudo veramente altrimenti si rischia di andare oltre; perché l’aver-cura degli altri avvera una «sostituzione degli altri nel prendersi ‘cura’[3]». Tutto questo viene inglobato da Heidegger nella “macro cartella” del linguaggio in quanto, con esso, meglio l’uomo esprime quella sua apertura innata all’essere-nel-mondo.
Detto tutto quello che si è detto e visto tutto quello che si è visto, seppur attraverso gli occhi dei moderni cinegiornali, possiamo affermare con una certa facilità che, in un mondo alla deriva come quello attuale, è d’uso delle “maggioranze” creare e farsi scudo di «strategie belliche demenziali[4]» affinché la persuasione ideologica faccia breccia nell’immaginario collettivo, anche della “minoranza”.
Lo abbiam visto fare da Hitler in Germania contro tutto e tutti, da Truman a Nixon, nessun presidente americano escluso, contro “l’infezione comunista”. E poi in Italia, in Francia e persino in Belgio e nella ex Jugoslavia. E la religione?
La religione, che da tempo ha perso l’aura sacrale, ha ora più che mai il dovere di ritornare, e non è la prima volta che lo dico, ad esser l’oppio dei popoli; non “oppio” visto come il navigar cieco e fedele intorno a qualcosa di cui bene non si sa, ma come inquadramento neo-dogmatico dei popoli. Non siamo più cavalli con i paraocchi che fanno “la giostra”, spero che qualcuno se ne sia reso conto, ma agiamo come lo fossimo. Quando una persona o una popolazione si autodefinisce cattolica, musulmana, ebrea, induista, italiana, francese, o altro, in virtù della propria stanzialità o del radicamento che un credo ha nel luogo in cui essa vive, perde una partita che in realtà finì, se non con Marco Polo e la sua Asia, almeno con i fratelli Wright e il loro Flyer III.
L’uomo della modernité, e questo “post-moderno”, han dato vita ad una logora ma tecnologica metodologia di sopraffazione che non lascerà né vinti né vincitori al suolo; ci renderà di nuovo schiavi di convinzioni che nulla hanno a che vedere con la religione o la religiosità in sé.
Anche se questo che avete letto doveva esser un articolo sul sacro nelle religioni, mi domando ora più che mai cosa sia la religione (nel suo senso più esteso) per l’uomo, se non una vessazione continua di quel credo, o chiamiamolo pure fondamentalismo, che si arroga il diritto di contarsi e affermar d’esser più seguito di un’altro. Ma questo “contarsi” chi lo fa, Dio, questa entità superiore all’uomo -nata dall’uomo-, o l’uomo stesso, così misero da dover ogni volta ricominciare la conta per esser sicuro di poter dire d’esser dalla parte giusta, quella della “ragione”?
Siamo in crisi, tutto qui. Riconosciamo prima chi siamo oltre a quel che ci definisce storicamente e, soltanto dopo, discutiamone.
Bibliografia:
[1] Secondo Antistene , filosofo greco discepolo di Socrate, il dare un nome alla ‘cosa’ non basta ad identificare in sé la realtà di ciò a cui si è attribuito il nome.
[2] Martin Heiddegger, 1927, Sein und Zeit, Tubingen, M. Niemeyer (trad. it. Di P. Chiodi, UTET, 1969, Pag. 278.
[3] Ibidem, trad. it. Pag. 210.
[4] Citazione questa che prendo da un librettino che tengo sempre sul tavolo di lavoro dal titolo “Lo spettro della peste” edito da Elèuthera nel 2011 e tradotto da Marta Milani.