Religione – Iconicità e cristianesimo. Il bisogno umano di vedere la religione e parlare ad immagini
12 Gennaio 2017Da dove nasce questo bisogno dell’iconografia, dell’immagine?
Il crocefisso è, nel sentito comune, un segno distintivo che unisce “qualcosa” a “qualcos’altro” e che, attraverso quel “qualcosa” primo, l’altro in una certa misura vi si identifica. Trattandolo sotto questa luce, il crocefisso spesso corrisponde ad una identità di primaria importanza per quel uomo, quel “altro”.
Più ancora del crocefisso, potremmo parlare di iconografia/iconicità e dell’Uomo come dell’animale tutto strano che abbisogna di queste forme di linguaggio (perché al fine è proprio ciò che per noi – uomini – esse diventano), tanto astratte quanto superiori a noi, al fine di riconoscerci come parte essente del tutto che ci circonda.
Per quanto noi ci possiamo sforzare di auto definirci moderni, post-moderni, ultramoderni e via discorrendo insomma, non possiamo venire meno alla millenaria cultura che in questo modo, cioè quello che stiamo vivendo hic et nunc, ci ha formato e che continua a riproporre i suoi rifermenti; per quanti siano stati i nostri sforzi al fine di uscire dal medioevo attraverso processi evolutivi, scientifici e poi industriali e di “civilizzazione”, non possiamo venir meno all’idea dell’immagine come di un riportarsi all’essenza stessa del cristianesimo.
Tutta l’iconografia religiosa del cristianesimo, che un po’ (un po’ tanto!) si amalgama bene con quell’iconografia tipica occidentale che tanto ci è cara, ruota intorno all’attesa del ritorno del figlio di Dio, morto e risorto. Quella presenza ritardata, negata, rinviata e ancora ritardata ma sempre anelata e promessa, in qualche modo ha generato una tale suspense – oggi diremmo – da egemonizzare tutto il pensiero occidentale.
Come si poté dunque mantenere viva l’idea del Cristo che deve ritornare in mezzo a noi? Attraverso il linguaggio ma soprattutto dell’immagine.
Se pensiamo che Lutero arrivò con forte ritardo rispetto alla presenza diffusa del cristianesimo e quindi il volgo, il popolo, rimase per secoli sotto l’influsso “mediatico” e sicuramente carismatico del clero, possiamo capire bene come la prima forma per avvicinarsi – o avvicinare – a Dio ed a suo figlio, fu proprio l’utilizzo delle immagini.Infatti, se non erro, fu per primo Lutero a tradurre dal latino – che era per pochi – la Bibbia ad una lingua comune a più genti, quella che tra l’altro grazie soprattutto a lui è oggi il tedesco. In realtà egli fu per la Germania quello che Dante fu per l’Italia: usò una “mistura” di dialetti popolari della Germania dell’epoca e li conformò ad una unica lingua nazionale. Un mixare che in teatro si definirebbe un Gramelot… ma non apriamo troppe parentesi!
Tornando a noi. A parte le produzioni “artistiche” protocristiane, dove ancora non si dava l’alto spazio al gusto estetico che poi gli si è conferito, tutte o quantomeno buona parte delle raffigurazioni afferenti, fra santi e vita di Gesù attraverso il Vangelo ad esempio, andarono a innestare nell’occidente un sistema di culto e di relazioni socio culturali – ma anche economiche – pervasivamente fondato su una iconica dimensione comunicativa.
Il “farsi immagine”, che attiene all’essenza stessa del cristianesimo, oggi più che mai investe ed è, forse, il tratto maggiormente peculiare della modernità social-e. Il logos inteso come verbum che da sempre regola i nostri rapporti civili ormai viene declassato in favore dell’eikon, dell’immagine. Per lo più vuota.
Spiego meglio. Anche quando fra di noi ci rapportiamo, parliamo, siamo indirizzati ormai verso – potremmo dire – slogan, anch’essi immagine di qualcosa “altro” che viene così rappresentato, portato in scena. Uno spostamento, una dislocazione semantica.
Se potessimo ritornare a guardare all’immagine come ad qualcosa di supplementare, di contorno e di appoggio a ciò che leggiamo (come – fu si presume – per le pitture che accompagnavano gli scritti dei testi sacri), potremmo iniziare a riflettere sul più complessivo mutamento di sensibilità che le immagini potrebbero, in un futuro, scaturire e sulla funzione specifica che le si potrà meglio dare. Meglio, quantomeno, al fin di non disperderne il loro senso intrinseco.
Chiudendo, se guardiamo un po’ indietro nella Storia, andando tra il III° e il IV° secolo e nella tradizione giudaica più a contatto col mondo ellenistico di matrice alessandrina, si potrebbe infatti parlare di violazione di un Comandamento – il Secondo – quello che diede Dio al momento dell’alleanza col popolo d’Israele: «non ti farai idolo [NdA: e qui evidentemente si parla di raffigurazioni sacre] né alcuna immagine somiglianza [NdA: e qui si può credere che si parla di tutte le altre forme di copia di ciò che è in natura, quindi tramite la pittura scultura eccetera] di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» (Es 20,4; De 5,8).