La crisi venezuelana Intervistato Ex Ambasciatore ora in Belgio
21 Febbraio 2018di Prof. Lenin Bandres.
trad. it. di Simone Caminada.
La crisi del debito venezuelano, guerra economica o dottrina dello “shock”?
Il Venezuela sta attraversando tempi duri e turbolenti in cui le notizie che arrivano ci riempiono di dolore e tristezza. Le ultime ci arrivano attraverso le pagine economiche.
Queste notizie sono allarmanti e ancor più quelli riguardanti la sua principale industria petrolifera, PDVSA (Petróleos de Venezuela S.A.). Ciò che dapprima cominciò come insinuazione sui timori dei creditori, per un possibile “default” del PDVSA, divenne uno “scandalo” quando l’agenzia Standard & Poors declassò la compagnia a “selective default”.
Il panico ebbe la meglio sulle maldicenze e i media cominciarono a far circolare la notizia dell’insolvibilità della PDVSA e, con essa, dello stato venezuelano. E se non si trattasse di un tipo di operazione ricattatoria e di manipolazione da parte del capitale finanziario mondiale?
Questo tipo di mobilitazione dell’opinione pubblica non è estranea alla quotidianità della globalizzazione finanziaria, in quanto pare sia “normale” l’uniformità nel denunciare rischi e minacce contro qualsivoglia debitore – pubblico o privato che sia – ogni volta che costui si trova in mora con i suoi creditori. Ci sarebbe da ricordare qui che successe la stessa cosa con l’Argentina nel 2001, e dell’Irlanda nel 2008 e del forse più celebre recente caso greco. In tutti questi casi la costante è che il debito, indipendentemente da chi sia lo Stato debitore, presto o tardi e a qualsiasi costo, dovrà essere rimborsato al capitale finanziario internazionale, unico e vero potere sovrano globale.
Questa supremazia del capitale globale su qualsiasi forma di esistenza, priva o pubblica, individuale o collettiva, non è esattamente quel che Marx denunciava (ne Il Capitale) “lo sfruttamento della ricchezza sociale, da parte di un numero sempre di più ridotto di capitalisti, nella sua più pura e colossale forma di truffa”?
Non è un mistero per nessuno che il capitale finanziario internazionale sia nelle mani di poche persone: da Tokio a San Paolo, da Parigi a Pechino, da Mosca a New York il flusso di capitali è controllato da entità finanziarie sempre più eterogenee. Secondo il Financial Stability Board, la stabilità del mercato finanziario mondiale si basa, in tutto il pianeta, su una trentina di banche “too big to fail” – troppo grandi per cadere.
Il più piccolo “battito di ciglia” di uno, in realtà, inciderebbe nell’altro, come successe con la crisi finanziaria del 2008, e l’effetto domino non tarderebbe a farsi sentire sul resto delle banche sul quale si poggia il caotico mondo della finanza mondiale. Queste trenta “banche sistemiche”, sono in mano a società d’investimento sempre più monopolizzate e chiuse in sé, inestricabili. Allo stesso modo in cui lo annunciava Marx, l’accumulazione del capitale si ritrova in sempre meno mani e, queste mani, sempre ne vogliono di più.
I buoni, i titoli, le obbligazioni del debito della Società Petrolifera Venezuelana (PDVSA) sono proprio nelle mani di questi pochi che controllano la finanza mondiale (fra questi Goldman Sachs e JP Morgan, due di quelle “too big to fail”). La pressione finanziaria esercitata contro il Venezuela, per l’assoluzione del debito, ha infiammato gli animi a livello internazionale, come una combinazione fra scandalo finanziario e ammonimento morale, additando le autorità venezuelane come principali responsabili dell’insolvenza dell’impresa petrolifera statale.
Tuttavia, quello che omette chi difende questa idea, come afferma Mauricio Lazzarato, il debito è soprattutto una forma di dominazione del capitalismo finanziario internazionale sull’intera popolazione mondiale, quindi il debito, privato o pubblico che sia, funziona come un dispositivo di controllo continuo del capitalismo per disciplinare la popolazione delle società moderne. Lazzarato ha ragione quando afferma che il debito è la “tecnologia della biopolitica” per eccellenza del nostro tempo, poiché attraverso il debito si è configurata l’ultima e riconosciuta soggettività capitalista moderna: l’uomo indebitato.
E ciò vale tanto per il soggetto individuale – il normale cittadino, il quale vive del credito per soddisfare le sue necessità di consumatore – tanto per gli Stati – che accedono al credito per finanziare i deficit fiscali.
Molto a dispetto della usuale retorica di vittima che ha assunto il governo attuale del Venezuela, le radici della profonda crisi economica e finanziari, non è una conseguenza del debito esterno, e nemmeno delle sanzioni economiche e finanziarie imposte dai governi degli States. La crisi del debito è un fattore molto all’interno della profonda e dolorosa crisi strutturale del capitalismo reddituale, che fece la sua prima apparizione negli anni ’80. Da allora nessuno governo venezuelano ha cercato (o è riuscito) a risolvere.
Ritornare una ennesima volta sulla base strutturale dell’economia venezuelana non è oggetto di questa tesi. Tuttavia, credo sia importante tenerne conto perché (a me sembra) la risposta del Governo, anche alla luce dell’attuale crisi, è totalmente errata. Nel caso del Venezuela le origini del debito di oggi ci riportano a dieci anni fa circa, quando l’ex Presidente Hugo Chávez decise di cominciare a emettere debito sovrano (vale a dire, obbligazioni e titoli sovrani della Repubblica) per finanziare la spesa pubblica.
Paradossalmente, l’emissione del debito venezuelano avvenne durante la decade del 2000, momento in cui il Paese sudamericano godeva del boom del prezzo petrolifero più alto della sua storia economica. Così, e concorde con la Plataforma por la Auditoria Pública y Ciudadana de la Deuda, dal 2003 a 2014, il debito sovrano passò da 38.814 a 131.040 di dollari americani. Ciò implicò un aumento del 330% in meno di nove anni. Illogicamente, durante il medesimo periodo, il prezzo medio del petrolio venezuelano passò da 25,66 $/bl nel 2003 a 93,73 $/bl nel 2014.
Cosa giustificò tale decisione? Una visione economica e politica sovradimensionata e irrealista. L’aumento dell’emissione del debito intendeva finanziare non solamente la spesa pubblica, e con esso le “missioni” e i progetti sociali, ma anche il consumo interno attraverso l’assegnazione di divise per l’importazione.
Questa misura d’indebitamento che si basò sul rialzo del prezzo del petrolio, e si identificò nell’immaginario di una grandezza e di una solidità economica e finanziaria fittizia, trovò il suo fondamento nell’idea che il Venezuela ha le riserve di petrolio più grandi al mondo e che, con il prezzo internazionale del barile sui 100$, il Paese poteva avere abbastanza risorse finanziarie per risolvere il problema delle spese. La realtà odierna è, infatti, tutt’altro. Nel giro di non più di tre anni l’economia cominciò a soffrire di forte recessione e di una iperinflazione senza precedenti che, combinate insieme, erosero in profondità e tragicamente la vita economica e sociale della popolazione.
Malgrado la retorica maccartista diffusa dai media internazionali, la politica economica in uso durante il periodo di Chavez (1999-2013) non fu né socialista né comunista. Fu invece una politica economica di stampo capitalista e riformista basata su presupposti keynesiani di intervento e regolarizzazione statale del mercato. È innegabile che l’alto prezzo del petrolio permise al governo del Presidente Chávez di redistribuire la rendita in una maniera più equa rispetto a periodi precedenti. Però è anche certo che ciò si concretizzò attraversò una politica di investimento sociale che contribuì alla crescita della domanda interna e all’aumento delle importazioni.
Tali misure si accompagnarono ad un controllo del cambio e dei prezzi, che resero de facto lo Stato un investitore e regolatore dello scambio commerciale internazionale e, allo stesso tempo, e ad un piano di nazionalizzazione ed espropriazione di attività che si considerarono strategiche per la Nazione. Questi interventi contribuirono indubbiamente a saldare la creazione di un capitalismo di Stato che, insieme, captava enormi masse di capitale provenienti dalla rendita dell’industria petrolifera e reagiva contro-ciclicamente al viavai dell’economia venezuelana. Ciò dista molto dall’idea di costruzione di uno “Stato socialista”. A dir la verità, la politica economica del periodo chavista cercava la creazione di una condizione di benessere che garantisse sicurezza sociale e impiego per tutta la popolazione. Ciò riuscì a convertire il proletariato (operai, contadini, impiegati, casalinghe, eccetera) in consumatori. Vale a dire che li integrò nel circuito produttivo capitalista, convertendoli in mano d’opera che poi sarebbe stata sfruttata ideologicamente e materialmente (attraverso la creazione di rendite patrimoniali e clientelari) però garantendogli benefici sociali attraverso le “missiones”.
Oggi la situazione è drammaticamente cambiata. Quando lo Stato venezuelano cominciò ad avere difficoltà nel finanziarie il sistema di benessere, disegnato su una base economica fittizia, esso trasferì le sue necessità economiche nel campo del sociale che implicò l’implementazione di strategie economiche che potremmo chiamare di “shock”, in accordo con la definizione di Noemí Klein nel suo famoso libro “the shock doctrine”. Si tratta d’interventi che mirano a creare le condizioni economiche sociali propizie (alto indice d’inflazione, fame, pauperizzazione sociale, disfunzione dei servizi pubblici) per l’inevitabile messa in atto di piani neoliberali di riforma economica disegnati dal FMI e dal Banco Mondiale.
All’interno di questi interventi di disastro economico bisogna sottolineare, da un lato, la diminuzione drastica e senza precedenti delle importazioni di beni di consumo primari, come soprattutto medicine e alimenti, che garantiscono il diritto basico alla vita per la popolazione. A questo bisognerebbe aggiungere che l’attuale governo venezuelano ha stabilito nel 2015 un nuovo piano di sviluppo economico (i 14 motori dell’agenda economica bolivariana), che alcuni esperti venezuelani han denunciato come la nuova ondata di accumulazione per spossessamento. L’implementazione delle “zone economiche speciali” (copiate dal modello cinese) unito allo sfruttamento delle risorse petrolifere e minerarie della frangia nord dell’Orinoco, sembrano essere le uniche vie disegnate dal governo nazionale per togliere il paese dalla difficoltà economica e finanziaria in cui versa attualmente.
Tali politiche non aiutano lo sviluppo economico del paese, ma al contrario lo affondano ulteriormente. In cambio, il Venezuela avrà ottenuto non solamente la espropriazione delle sue risorse naturali con le funeste conseguenze sociali ambientali che già conosciamo attraverso lo sfruttamento petrolifero, ma anche una economia nazionale una volta di più dipendente dagli andirivieni della domanda e dei prezzi delle materie prime del mercato
internazionale. Tutto questo ci permette di affermare che se l’era Chávez fu caratterizzata da una politica economica di captazione e redistribuzione della rendita petrolifera, il periodo che le è succeduto (2013 – 2017) segna l’inizio di politiche economiche di “riaggiustamento strutturale dissimulato” che cercano di creare le condizioni di caos economico, sociale e politico, che in seguito giustifichino l’implementazione di misure di ristrutturazione e di risanamento economico di carattere neoliberale. Come spiegare tutto questo se non come misure economiche di shock già sperimentate in Argentina, Grecia o Ucraina? Noemí Klein ha dimostrato che queste politiche non sempre hanno sortito lo stesso effetto nei diversi paesi in cui furono a suo tempo applicate. Misure che in condizioni “nomali” la popolazione non avrebbe mai accettato. Utilizzando la premessa secondo la quale la finalità è la stessa però son distinti i metodi, la macchina da guerra del capitalismo ha saputo mutarsi sia geograficamente sia storicamente per inserire nuovi mercati nel circuito globale e illimitato di capitali e merci.
Questo è stato il caso del Cile di Allende, dell’Iraq post-Hussein, della crisi del debito Greco. Sfortunatamente questo sembra essere ugualmente il caso venezuelano. L’unica differenza è che queste misure di shock sono state implementate nel quadro di una crescente retorica di confronto contro gli USA (e in minor misura contro l’Europa) senza tuttavia che questo influisse negativamente sui termini dello scambio economico e sull’investimento diretto straniero di questi Paesi in Venezuela. Prova di tutto ciò è che tanto nella zona petrolifera dell’Orinoco, quanto nella zona mineraria dell’Arco Minero, partecipano innumerevoli imprese e multinazionali straniere.
Come si spiega questa scalata retorica a livello politico e il fatto che a livello economico le transazioni avvengano come business as usual? La spiegazione che mi pare più interessante è nella politica del ‘nostro’ tempo, il cui nome è populismo (vedi in USA con l’arrivo di Trump alla presidenza). Credo sia necessario sottolineare che (e in larga misura la maggioranza dei detrattori del populismo proviene dal mondo degli intellettuali liberali, cioè quelli che vedono in lui una grande minaccia per il futuro della democrazia rappresentativa) la versatilità e l’eterogeneità del populismo permette che questo tipo di discorso si adatti alle diverse correnti e circostanze politiche esistenti. Una volta di più la retorica incendiaria di Trump, Erdogan o di Victor Orvan asserve agli interessi del capitale transnazionale. La politica economica condotta da Maduro in Venezuela dal 2013 pare che si scriva nello stesso registro, e, per quanto le recenti sanzioni finanziarie contro il PDVSA inducano a pensare il contrario, l’amministrazione Trump non è rimasta sorda alle domande degli industriali nel settore energetico che possiedono investimenti in Venezuela o che commerciano petrolio grezzo e raffinato. Questo spiega anche perché le sanzioni sono state selettive e limitate al settore finanziario e non si sono estese al commercio bilaterale di beni e servizi dentro al quale il petrolio occupa un’importanza capitale. In questo, come in altri casi della vita politica ed economica del Paese, la realtà tende ad essere simulata o dissimulata da chi detiene l’opinione pubblica. Sia come sia, la realtà finanziaria del Venezuela pare essere come affermato nelle righe precedenti. Nulla giustifica che il Venezuela detenga i peggiori indicatori macroeconomici di tutta l’America Latina. In nessun Paese membro dell’ALBA (inclusa Cuba, che ha sofferto più di 40 anni l’embargo USA) vigono tali pessime condizioni economico-sociali.
La soluzione della crisi non si trova in un’assennata onnipossente élite tecnocratica capace di risolvere tutto con un colpo di magia. L’alternativa, che piace ai membri del Mesa de la Unidad Democrática (MUD) che guardano con favore le politiche del fondo monetario internazionale e del Banco Mondiale, fu già sperimentata in Venezuela durante la decade degli anni ’90 lasciando come eredità alti indici di povertà, fame, e di regressione economica sociale. Un ritorno al modello neoliberale sperimentato in quel torno di tempo non farebbe altro che aggravare l’attuale crisi economica e sociale.
D’altra parte, come ho tentato di dimostrare più sopra, è inverosimile che le soluzioni che possono emergere nel governo di Maduro rappresentino un’alternativa sostenibile. Quali sono le caratteristiche di questo nuovo regime e quali saranno i benefici economici e sociali per la nazione, unica proprietaria delle risorse naturali del Venezuela?
Credo che davanti a queste due visioni economiche il Venezuela dibatta tra “la padella e la brace”, senza nemmeno – poter o voler (?) – dare ascolto a voci alternative. Voci dove s’incontrano quelli che da diversi anni esigono la realizzazione di un auditorio cittadino sul debito, con lo scopo di determinare quale sia il debito legittimo e quale no. Inspiegabilmente, questo tipo di proposta non ha alcuna risonanza né nell’ANC né nelle autorità del governo bolivariano. Penso invece che sia arrivato il momento di ascoltare. Questo potrebbe permettere che a breve si assegnino risorse per l’importazione di medicine e alimenti, e, con esso, risolvere parzialmente la grave crisi umanitaria che attraversa il paese anziché anteporvi il problema del debito. Per ultimo credo che la nuova politica venezuelana debba essere il risultato di un gran dibattito nazionale sulle priorità e le alternative che si presentano al paese nel breve, medio, e lungo termine. Non è il momento per soccombere né all’inoperosità di un’ortodossia avanguardista né al radicalismo infantile. I tempi fremono e il futuro del Venezuela dipenderà indubbiamente da decisioni audaci e appropriate che garantiscano alle generazioni future un avvenire di equità e di libertà, e, allo stesso tempo un progresso che permetta di preservare biodiversità e patrimonio etnico-culturale.