Gianni Vattimo, la solitudine del filosofo
9 Ottobre 2018di Marco Pacini
Il teorico del postmoderno non ha eredi nella Torino che fu nel ’900 avamposto del pensiero. I suoi allievi hanno preso altre strade e il suo archivio è finito a Barcellona: «Qui nessuno me lo ha chiesto»
In via Carlo alberto, all’angolo con la piazza che porta lo stesso nome, la fine della filosofia (di una filosofia) è scolpita nel marmo: «In questa casa Federico Nietzsche conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto…». E annega nella folli a mentre completa “Ecce homo”: Dio è già morto, la Verità anche, a pochi metri da dove Nietzsche conclude la sua parabola abbracciando e parlando a un cavallo.
Era il 3 gennaio del 1889, così dice la storia. O la leggenda, ma poco importa. «Su Torino non c’è niente da ridire: è una città magnifica e singolarmente benefica… Torino è una città che non si abbandona», scriveva il filosofo agli amici dalla casa di via Carlo Alberto 6, dove abitava dal 21 settembre dell’anno precedente. Fu costretto ad abbandonarla solo 6 giorni dopo quel 3 gennaio. Destinazione: una clinica psichiatrica a Basilea.
E tutto potrebbe finire così, con questa istantanea da Torino, dove è sepolta la filosofia. Ma fuori dai contorni di questa cartolina scattata sulle tracce dell’Oltreuomo crollato ai piedi di un cavallo – potente metafora della resa di un Pensiero – c’è dell’altro. C’è la resistenza della filosofia «che non finisce di finire». E che ha trovato in Torino un suo avamposto nel Novecento: Abbagnano, Pareyson, Geymonat, Bobbio… per citare solo alcuni grandi nomi.
Torino che ancora oggi attira centinaia di studenti da tutta Italia mentre altrove i corsi di laurea in filosofia chiudono. La Torino dove Maurizio Ferraris con il suo Labont (laboratorio di ontologia) segna la strada del “Nuovo realismo”.
E poi, o prima, la Torino di Gianni Vattimo, uno dei filosofi italiani più tradotti e letti nel mondo per decenni. Il pensatore della postmodernità che nel 1983, con “Il pensiero debole”, insieme a Pier Aldo Rovatti impresse una svolta destinata a durare molto tempo al dibattito filosofico italiano, intrecciandolo soprattutto con quello francese. E che per tutta la vita – «da quando ero bambino e stavo con mia madre» – non ha mai abitato a più di qualche centinaio di metri di distanza da quell’appartamento al quarto piano di via Carlo Alberto dove Nietzsche dava gli ultimi colpi di martello alla filosofia sistematica, tentando l’ignoto.
«Se devo raccomandare a qualcuno di leggere questo libro, lo farò in nome del fatto che la sua lettura può migliorargli la vita…». C’è scritto proprio così a pagina 10 di “Essere e dintorni” (edito da La Nave di Teseo, pp. 425, € 22), l’ultimo libro di Vattimo che raccoglie i suoi scritti degli anni più recenti. Servirà a questo la filosofia? Domanda antica come la filosofia stessa.
Converrà allora bussare alla porta dell’autore per provare a capire, cioè, non solo il senso di quel “miglioramento”, ma soprattutto se e a che cosa servano i filosofi e la filosofia dopo Nietzsche e nell’epoca dell’accelerazione senza direzione e del pensiero tecno-indotto.
Torino, via Po 11. L’appuntamento è alle 10; il dito preme sul campanello con qualche minuto di anticipo. Alla porta c’è Simone Carminada, suo amico e assistente. Vattimo è seduto su una comoda poltrona. Sancho, l’inseparabile gatto fulvo, sonnecchia poco distante. Sorride il professore di fronte all’ospite che vorrebbe capire meglio come migliorarsi la vita. Perché in fondo quelle due righe erano una battuta, un gioco di sponda con Gadamer e Hegel. «Però sì, la filosofia, non questo o quel libro in particolare… La filosofia può migliorare la vita perché rende il mondo più interessante, dà significato agli eventi».
Piccola pausa, un sorso d’acqua. «Però è un dubbio che qualche volta ho anch’io… se e a che cosa serva la filosofia voglio dire… Se la filosofia ha ancora qualcosa da dire è attraverso Heidegger. Il problema passa da uno che ci segnala la condizione di alienazione in cui siamo. La filosofia è questo, non è un sapere specialistico. È cogliere il fatto… Ecco, Heidegger, nel 1927, coglie con “Essere e Tempo” il fatto che la nostra cultura considera l’Essere come oggettività. Quello che succede al mondo è solo pianificazione tecnica di controllo. E oggi lo vediamo più di allora. Se l’Impero c’è, è il dominio dell’oggettività».
Heidegger è quasi una presenza fisica in questa casa che si affaccia sul cortile del vecchio rettorato. Insieme a Gesù Cristo e a Marx. È in questa “strana compagnia” che possiamo trovare una forma di pensiero, una prassi (anche politica) che non si limiti alla descrizione di ciò che c’è, facendone un’apologia che ostacola ogni trasformazione, secondo Vattimo.
Cristiano, comunista, heideggeriano, l’ottantaduenne filosofo è da sempre e sempre di più sostenitore di una “ermeneutica militante” contro le pretese e il dominio dell’oggettività, del dato di fatto. Nemico giurato del c’est la vie , che è la predisposizione prevalente con cui ci poniamo di fronte al dominio dell’iper-capitalismo, della tecnologia totalitaria, del loro sodalizio che costituisce un “mondo”. «Un mondo», scrive Vattimo, «che sfugge sempre di più alla nostra possibilità di controllo e comprensione».
E ricompare Heidegger, che nei “Contributi alla filosofia”, ricorda il professore, «scriveva che la vera emergenza oggi è l’emergenza da mancanza di bisogno, il fatto che non accada nulla… è il trionfo della metafisica oggettivistica, il come stanno le cose è il solo orizzonte possibile».
Come fare accadere qualcosa dunque? Come trovare un altro orizzonte?
«Il mondo di domani a cui guarda, aspira, l’ermeneutica», scrive Vattimo in uno degli interventi raccolti in “Essere e dintorni”, «è un mondo dove le cogenze “oggettive”, il “principio di realtà” – che ormai si identifica sempre più con il capitalismo finanziario – dovrà sempre più confrontarsi con l’ampliarsi del mondo del dialogo, della verità-evento, della progressiva simbolizzazione che, mettendo in secondo piano gli oggetti per farne dei termini di comunicazione tra soggetti, ridurrà anche sempre di più la violenza dell’immediatezza».
È la sua battaglia di sempre. Che consiste nell’«affinare le proprie capacità critiche mostrando che le pretese di verità sono sempre, anche e anzitutto, pretese di potere».
Sembrano aprirsi squarci di verità mentre si ascolta il filosofo che non ha mai smesso di prenderla di mira. Ma si ha anche l’impressione che sia solo. Non l’uomo, il filosofo.
Solo con il suo “cattocomunismo”, il suo “cristianesimo senza verità” da comprendere e praticare come kènosis (l’abbassamento di Dio che si è fatto uomo). Solo con il suo heideggerismo che non si è fatto scalfire dalla pubblicazione dei “Quaderni Neri” del pensatore tedesco e dalla riapertura del dossier “Heidegger nazista”. E infine solo con il suo “comunismo ermeneutico” elaborato insieme all’amico-collega Santiago Zabala e criticato da molti marxisti.
Dei suoi allievi, cresciuti filosoficamente con lui a Torino, Vattimo ha perso per lo più le tracce. «E oggi», racconta il giovane filosofo Leonardo Caffo, «mentre ci aggiriamo tra gli studenti che si stanno dirigendo verso le aule del dipartimento di filosofia, del pensiero di Vattimo è rimasto ben poco a Torino. Un grande pensiero… Ma qui si è abbracciata la filosofia di matrice anglosassone, analitica, che ha poco da dire…».
La separazione teoretica più importante risale ormai a molti anni fa. Ed è stata quella tra Vattimo e uno dei suoi allievi di allora più brillanti: Maurizio Ferraris, destinato a diventare una star della filosofia come il vecchio maestro. Quando poi, nel 2012, Ferraris ha aggiunto l’ultimo tassello alla sua svolta di fine anni Ottanta, con la pubblicazione del “Manifesto del nuovo realismo”, la polemica tra i due è decollata finendo sugli scaffali delle librerie: volume contro volume.
Oggi, ricordando gli anni della sua formazione con il vecchio maestro, del loro sodalizio filosofico, Ferraris cita i versi di Francesco Guccini: «Però che Bohème confortevole giocata fra casa e osterie / quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie…» . «Pensare alla Torino filosofica di fine anni Settanta mi richiama questa canzone del 1981», dice Ferraris, «giusto l’anno in cui, con “Tracce”, distillavo il senso del mio passaggio attraverso il postmoderno, che però, a quel punto, e come tutto quel mondo, si incamminava per me verso il passato.
Due anni dopo usciva “Il pensiero debole” ed era il canto del cigno. Ma la seconda metà degli anni Settanta è un tempo che ricordo bellissimo e angoscioso, come è giusto che siano gli anni di formazione, e segnato per me come per tanti altri e in modo incancellabile da Vattimo, dal suo unire Nietzsche, Heidegger, la sinistra e il cristianesimo, dalla sua ironia, dal suo rigore, dalle sue speranze (all’epoca, non dimentichiamolo, aveva poco più di quarant’anni)».
Oggi che quegli anni li ha doppiati, Gianni Vattimo non si cruccia per i “divorzi”, distilla il suo pensiero in modo ancora più radicale. Scandendo bene le parole nel salotto di via Po. «No, non ho eredi, non lascio una “scuola”, in America Latina sono ormai più popolare che qui. Ma a dire il vero non mi sono mai posto il problema se ho degli eredi. Nonostante questo mi sento abbandonato, isolato… ma non bisogna prendersi sul serio. Sono solo un giocatore tra tanti».
Isolato al punto che l’archivio di uno dei più importanti filosofi italiani della seconda metà del Novecento non ha trovato casa in Italia. Casse di appunti, manoscritti, minute, testi annotati, lezioni: l’archivio Vattimo è finito a Barcellona. «Qui nessuno me lo ha chiesto, nessuno mi ha proposto nulla. Me l’ha proposto Santiago Zabalo… In facoltà a Torino non avevo più molti amici, e così ho accettato che andasse a Barcellona».
Isolato in Italia e nella sua Torino. Un’icona della filosofia italiana del Novecento da guardare con rispetto ma sottolineando la distanza. Come fa anche Giovanni Leghissa, professore di filosofia teoretica a Torino che si è formato negli anni Ottanta con Pier Aldo Rovatti, alla scuola del “pensiero debole”.
«Vattimo ha legato il proprio nome a una delle stagioni più feconde del pensiero italiano tra fine degli anni Settanta e inizio degli anni Novanta», osserva Leghissa. «Oggi di quella stagione resta poco: più che interpretare il mondo, sembra oggi urgente capire come è fatto, quali strutture complesse ne governino l’architettura e le stratificazioni».
Eppure è dell’oggi (e del domani) che Vattimo continua a parlare mentre il gatto fulvo reclama qualcosa e Simone si prepara per la passeggiata con il professore. Lo fa qualche volta in modo iperbolico, come quando immagina Papa Francesco come unico possibile capo di un’internazionale comunista. Ma in ogni caso sempre fedele, sulle orme di Heidegger, alla storicità dell’Essere. Che è evento, non “dato di fatto”. E ci investe come tale, per essere interpretato.
«L’evento accade al di là della qualifica umana di soggetto», spiega il filosofo. «L’Essere accade, e accade coinvolgendo i soggetti non per loro iniziativa. Accade nel mondo tecnologico come vediamo, e può inquietare, ma “là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”, come ricorda Heidegger citando un verso di Hölderlin. Il futuro dell’uomo non è nelle sue mani: o è religione o è totalitarismo».
«Solo un dio ci può salvare», dice Vattimo citando il titolo dell’ultima intervista postuma del filosofo di “Essere e tempo”. E aggiunge: «L’esito del pensiero heideggeriano è un pensiero religioso». Forse non tutti gli studiosi del pensatore tedesco saranno della stessa opinione.
Di certo è religioso l’esito del pensiero di Vattimo. Nulla di sorprendente per un filosofo che si è sempre professato cristiano. Ma forse lo è più di quanto si aspettassero i suoi lettori.
Prima della passeggiata Vattimo liquida il “nichilismo pop” di certi autori molto in voga, alla Michel Onfray, con un gesto della mano: «Non seguo questi nichilisti. C’è un destino dell’Essere anche nella negatività. Lo dico perché sono cristiano nel senso della kènosis. Solo un’umanità religiosa potrà vivere in questa situazione di negatività crescente. L’Essere si afferma al di là degli enti. Per volgere in spirito ciò che la tecnica ci butta addosso ci vuole un’umanità religiosa. Solo un dio ci può salvare».
Il filosofo è solo, la filosofia forse non ancora. A farle compagnia c’è almeno l’ “inattualità” di Gianni Vattimo.