Indebolimento e filosofia della praxis. I meriti di Gianni Vattimo.
4 Novembre 2016di On. Roberto Rampi.
Nella sua elaborazione del Pensiero Debole fin alla metà degli anni ’60, Gianni Vattimo imposta un lavoro filosofico di straordinario valore. Si provi a capire come mai gli vengono riconosciuti questi grandi meriti, ormai in tutto il mondo.
Ciò che è più interessante nella impostazione ermeneutica di Vattimo è soprattutto che alla pars destruens antidogmatica, felice sintesi di un percorso filosofico culturale che incontra Nietzsche e Heidegger e che fa tesoro del migliore idealismo e di gran parte del pensiero contemporaneo, si aggiunge una pars costruens di straordinaria forza innovatrice, ma che soprattutto dà un ruolo quotidiano, vivente, concreto alla filosofia.
Vi è la messa in luce dei pericoli dell’oggettivizzazione, figli di una lingua soprattutto e quindi di una cultura e di una koiné occidentale che confonde il sostantivo con l’oggetto, confondendo i tipi logici e portandosi a credere che possa esistere un oggetto non interpretato e non interpretabile ma definito una volta per tutte e che soprattutto si possa arrivare ad una conoscenza (rivelata?) di questo oggetto una volta per tutte e quindi indiscutibile. In sostanza, il dogmatismo, il pericolo totalitario, il contenuto violento in sé, non è da ricercarsi in occasionali e rimediabili derive di una certa impostazione logico-epistemologico-culturale dell’occidente, ma è la conseguenza logica del suo affidarsi al sostantivo, all’oggetto, che dalla semplice ostinazione terminologica si sposta via via nella scienza, nella dottrina, nella religione, nello Stato, nella politica, con spinte che tendono a cancellare l’altro come interpretazione alternativa possibile e che nella società della comunicazione con ancor più forza diventano pensiero unico, senso comune malinteso, violenza.
In questo coglimento radicale della natura intrinsecamente violenta di un sapere non consapevole della propria provvisorietà, del necessario probabilismo delle proprie acquisizioni, del bisogno di mettere continuamente in luce la dimensione interpretativa, ermeneutica, di ogni conoscenza anche la più basilare, in questo relativismo antidogmatico che spiega la guerra, la violenza politica, il costante pericolo antidemocratico come la strada più facile dal punto di vista intimamente logico-gnoseologico, Vattimo introduce la concezione dell’indebolimento non come qualche cosa che il soggetto subisce come tipicamente la parola porta con sé come connotazione e neppure semplicemente come qualche cosa di cui farsi una ragione, di cui prendere atto, come la maggior parte della tradizione a lui affine sembra mettere in luce.
La forza dell’indebolimento vattimiano è il suo essere un’azione consapevole, una via, un percorso, un comportamento, un’impostazione intellettuale che il soggetto singolo e collettivo può darsi ed è opportuno che si dia, se vuole costruire alcune di quelle condizioni di cui si è soliti sottolineare gli aspetti positivi. In buona sostanza il dogmatismo (e il totalitarismo nelle sue diverse accezioni) non è un errore o una deriva, ma è una tendenza prevalente cui solo un rigoroso e continuativo esercizio quotidiano in forma di allenamento per tenere in buona salute la mente individuale e collettiva può porre rimedio. Un po’ come il colesterolo per le nostre società opulente.
Indebolimento che permette allo scienziato di tenere aperta la porta del confronto e della ricerca e di avere l’opportunità di nuove scoperte, ma anche indebolimento come chiave della democrazia che non è altro che indebolimento dei sistemi forti di governo, monarchici, oligarchici e totalitari. Se esiste una qualsiasi verità sarà il re o il gruppo dei potenti o dei sapienti o il partito unico che la incarna e la conosce capace di portare tutti gli altri in quell’unica direzione auspicabile, ma se questa direzione non esiste e solo accettando fino in fondo questa precarietà ha senso la fatica quotidiana di una democrazia che è il riconoscimento della provvisorietà ma anche dell’apertura ad una discussione sempre possibile. Così negli ultimi scritti Vattimo mostra in maniera sempre più efficace come il cristianesimo sia esso stesso indebolimento delle grandi religioni del Libro e forse il luogo intellettuale dove di più l’indebolimento mostra la sua forza.
Quale miglior immagine dell’indebolimento dell’incarnazione. Di un dio che si fa carne, di un creatore che si fa creatura, che sceglie di essere in un solo luogo, in un solo tempo, assumendo su di sé la precarietà, la finitezza, la sofferenza dell’umano troppo umano e diventando per questo universale, di tutti e non più di un solo popolo, immagine liberatrice di speranza per tutti coloro che vogliono cambiare la propria condizione e ancora che ad una dogmatica di comandamenti contrappone il solo comandamento dell’amore: un imperativo categorico che riassume in sé ogni comandamento ma ne sposta la forza imperativa da eteronoma ad autonoma, da esterna ad interiore, da minacciosa, violenta, forte a persuasiva, coinvolgente, debole.
Un grande pensiero di libertà e liberazione. Per questo è tutta da indagare una relazione forse inedita di questo Vattimo con la filosofia della prassi, con una filosofia che mette al centro la indistinguibile compresenza del teorizzare e dell’agire, che si pone come atto, azione, volontà, che propone comportamenti individuali come nella tradizione socratica o dell’oriente buddista, come atti teorici essi stessi. La volontà che è soggettiva e metasoggettiva, motore antideterminista di un sapere che è al tempo stesso agire in un’indistinta unicità del soggetto interpretante che al centro della narrazione è narratore esso stesso. In questa chiave la filosofia vattimiana è intrinsecamente politica, è politica e filosofia insieme, e pensiero civile e fondamento di un modo di vivere, cioè di interpretare il mondo e cambiarlo al tempo stesso con la stessa interpretazione.