Bataclan due anni dopo, “una storia sbagliata”.
14 Novembre 2017Alcune considerazioni estetico/narratologiche dell’artista Gabriele Morleo sui fatti del Bataclan
Ieri è andata in onda la liturgia del dolore e della paura. A due anni di distanza dai fatti terroristici gli occhi di tutto il pianeta si sono gonfiati nuovamente di lacrime.
In prima fila, naturalmente, i nani più alti del mondo detti anche “I Grandi della Terra”, cardinali del libero mercato, vescovi feudatari e detentori in terra del potere temporale della grande Chiesa del Capitale, ricorderanno, commossi, la strage al Bataclan di Parigi, nel novembre 2015. Ancora una volta, si commemora per scavare di qualche metro la fossa della memoria; si ricorda per dimenticare. Dimenticare e far dimenticare le ragioni più profonde che portarono a quei fatti. I cuori, soprattutto degli europei e dei nordamericani, assumono le tinte del tricolore francese, pompano di retorica e trasudano paura.
Io, si sa, non sono un né un politico, né un politologo e, per la verità, neppure un “sentimentale”, dunque non mi avventurerò in complesse analisi geopolitiche ma mi limiterò a fare qualche considerazione seguendo il percorso suggeritomi dalle uniche mappe che sono in grado di leggere: quelle che fanno riferimento esclusivamente allo snodo narratologico dentro il quale la Storia si muove e al risultato estetico che produce.
Immaginiamo, allora, una storia dal sapore “dickensiano”; immaginiamo un uomo, il Signor E. che ha ucciso un altro uomo, il Signor A.; immaginiamo, ora, che il Signor E. oltre ad aver ucciso il Signor A. lo abbia derubato di tutto, gli abbia stuprato le donne della famiglia e poi se ne sia tornato alla propria casa, in un paese lontano, lasciando lì, nella casa del Signor A. solo morte, dolore, disperazione d un povero orfano. Immaginiamo, poi, che un giorno bussino alla porta del Signor E. il quale aprendo, trovi ad attenderlo sulla porta il povero orfano del Signor A. ormai cresciuto e divenuto un ragazzino. Il paradosso è che si trova su quell’uscio poiché invitato, con la promessa di un lavoro e di una vita nuova, dallo stesso Signor E.
Non chiede vendetta, non ci pensa affatto! Chiede un tetto per dormire, qualcosa da mangiare e un lavoro per sdebitarsi, già, sdebitarsi pur essendo il Signor E. la causa delle sue sventure. E così, l’uomo che gli ha rovinato la vita, lo accoglie in casa ma lo sbatte subito in cantina, lo fa dormire nel deposito degli attrezzi, lo delega ai lavori più umili, lo sottopaga, gli dà poco da mangiare, non è ben visto se attraversa il salone della casa, lo rende antipatico alla servitù. Già! La servitù, ovvero i lavoratori della ricca ma ormai decadente casa del Signor E., fino a quel momento, ultima ruota del carro, ora, come per magia, diventa la penultima. Il povero orfano del Signor A. viene accusato delle peggiori nefandezze e di essere la causa di tutti i guai della vecchia e sontuosa abitazione che lo ospita. Gli si nega tutto, o quasi. Gli si dà, ad esempio, il cognome e la residenza e gli è addirittura concesso di guardare la tv, giocare alla Playstation e utilizzare lo smartphone.
La storia dal sapore “dickensiano” purtroppo si interrompe qui poiché, se il seguito lo avesse scritto Dickens, avrebbe avuto un risvolto ben meno drammatico di quello scritto dalla realtà: il Signor E. è l’Europa, il Signor A. l’Africa e parte dell’Asia.
Gli attentatori di Parigi sono per lo più cittadini francesi, europei dunque. Figli e nipoti di quella storia triste che ha bussato alla porta di chi, quella storia così tremenda l’ha voluta. L’Occidente, attraverso i media, i social etc… ha offerto/imposto loro un modello di vita, una cultura con la “c” minuscola dove non conta ciò che si sa ma ciò che si ha, dove si soddisfano i bisogni ma si negano i diritti. Non ha certo fatto in modo di avvicinarli ad una Cultura vera, quella del sapere, dell’arte, della storia, della bellezza anche come diritto. Anzi, al contrario, li ha fatti sentire indegni della Cultura con la “C” maiuscola e traditi dalla cultura con la “c” minuscola, scatenando un odio profondo.
In tanti sostengono che quei giovani attentatori abbiano aderito oggi all’ISIS, come 30 o 40 anni fa avrebbero potuto aderire a gruppi dell’estrema sinistra. Tale affermazione mi vede assolutamente d’accordo, anzi aggiungo anche qualche altra riflessione, di carattere “estetico”, s’intende. Il brand Isis, il “franchising del terrore”, come è stato definito, risulta molto allettante, basti guardare i video, scrutarne nel profondo l’iconografia. Le ambientazioni, i contrasti di colore (tute nere-tute arancioni) il modo di marciare, la spettacolarizzazione e la spettacolarità di ogni azione – il Bataclan come spettacolo ucciso con lo spettacolo – il modo di agire, ricordano molto la grafica e le dinamiche dei videogames americani. Persino gli abiti non hanno nulla che ricordi l’Islam, l’Oriente o l’Africa, fatta eccezione, naturalmente, per il califfo Abū Bakr al-Baghdādī il quale, tuttavia, nell’eloquio ricorda più un predicatore americano che un imam.
Anche per questa ragione, per quei ragazzi, aderire all’Isis non è difficile, non devono fare un lungo viaggio verso le proprie origini, il brand, culturalmente, è molto più vicino. L’Isis non è la faccia cattiva dell’Islam, l’Isis è l’altra faccia dell’Occidente, quel Frankenstein che ha creato in uno squallido laboratorio o nel caveau di qualche banca e che, oggi, gli si rivolta contro.